I Grandi Maestri Fotografi
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- | nato nel 1902 a San Francisco e deceduto a Carmel in | + | nato nel 1902 a San Francisco e deceduto a Carmel in California nel nel 1984. Nel 1916, Ansel Adams scatta le sue prime fotografie durante un soggiorno di vanza al Yosemite National Park della California. Già allora si annunciano i contenuti della sua futura attività artistica: il collegamento tra l'interesse per la fotografia e l'amore e l'impegno nei confronti del paesaggio americano. In un primo momento, tuttavia, Adams sceglie di studiare pianoforte. Solo grazie all'incontro con Paul Strand nel 1930 scopre nella fotografia il suo vero mezzo espressivo. Nel 1932, insieme ai fotografi costituisce il gruppo "f-64". I membri si schierano in modo dogmatico a favore di una fotografia caratterizzata dalla massima profondità di campo e accuratezza dei dettagli. Nel 1941 il fotografo mette a punto il suo "sistema a zone", uno strumento per determinare il tempo di posa e di sviluppo, che consente una gradazione ottimale delle componenti del grigio. Adams illustra le proprie concezioni e tecniche in numerosi libri e seminari. Nel 1946 fonda l'istituto di fotografia all'interno della California School of Fine Arts di San Francisco. Nel 1962, sceglie di vivere in pianta stabile nelle Carmel Highlands. Come fotografo di paesaggi, Adams ha trascorso gran parte della sua vita nei parchi nazionali americani, cui ha dedicato oltre 24 volumi. La sua attività non si è limitata alla fotografia fine a se stessa, ma ha sensibilizzato il pubblico alla causa dei parchi: egli ne ha sostenuto infatti il mantenimento e contribuito all'istituzione di nuovi. |
sua la famosa frase "Ci sono due persone in ogni foto: il fotografo e l’osservatore” | sua la famosa frase "Ci sono due persone in ogni foto: il fotografo e l’osservatore” | ||
Versione delle 07:53, 11 giu 2012
LAVORI IN CORSO - WORK IN PROGRESS - CANTIERE APERTO
Premessa
Queste pagine sono state realizzate con la fattiva collaborazione e ricerca, effettuata dagli utenti: Andrea Plebani [Andrea Plebani], Stefano Tommasi [stefanoholden],Antonella [norasmind] Enzo [enzocala],Mauro Rigaldi [emmerre]
Fonti: Photorevolt, National Geografic, Google immagini, ed altri.
L'intento è quello di stimolare gli utenti e non solo, a conoscere questi grandi fotografi, che hanno fatto la storia della fotografia e i contemporanei continuano a farlo, con immagini che in alcuni casi sono diventate esse stesse pagine di storia, cronaca e giornalismo che hanno fatto il giro del mondo e sono state sulla copertina delle più diffuse riviste e giornali. Alcune di esse rimarranno anche nei libri di storia,perché rappresentano un fatto anche drammatico ma importante per l'umanità, non sempre positivo. Da questi maestri oltre che ammirarli noi tutti possiamo trarne ispirazione e conoscenza volte a crescere qualitativamente e leggendo le loro storie anche ricavarne insegnamento dal punto di vista umano.
Non si ha certamente la pretesa di aver creato qualcosa di unico ed esaustivo, anzi ci sono ancora chissà quante lacune e molti altri fotografi che mancano e che dovrebbero far parte di questa rassegna, e qualcuno potrebbe anche obbiettare sull'utilità, potendo trovare facilmente nella rete quanto qui inserito, però non tutti sanno che esistono e chi sono, crediamo che un sito che si occupa di fotografia debba anche scrivere di queste cose e metterle a disposizione dei propri utenti che se veri appassionati di questa disciplina, non mancheranno di apprezzare, ma come e ben in evidenza, siamo un cantiere aperto, la storia continua......eventuali suggerimenti sono graditi, possono essere inseriti nel forum.
Alfred Eisenstaedt
1898 Dierschau,Germania - 1995 Oak Bluffs Martha's Vineyard, Massachusetts. Alfred Eisenstaedt incomincia a scattare fotografie già a 13 anni con un apparecchio Kodak ricevuto in regalo. Dopo la prima guerra mondiale, all'epoca della grande inflazione, si guadagna da vivere vendendo cinture e bottoni per conto di un'azienda di Berlino. Nel tempo libero si dedica alla fotografia e incomincia a sperimentare gli ingrandimenti di particolari. La pubblicazione su «Weltspiegel» della foto di una tennista segna l'inizio della sua carriera di fotografo freelance per molte riviste e quotidiani tra cui anche il «Berliner Tageblatt». Nel 1929 decide di dedicarsi esclusivamente a quella che fino a quel momento era stata solo una passione e lavora per la Pacific and Atlantic Picture Agency. Già con il primo incarico affidatogli - realizzare un reportage fotografico sul conferimento del Premio Nobel a Thomas Mann nel 1929 - suscita grande attenzione. In questi anni realizza numerosi ritratti fotografici divenuti poi famosi; tra gli altri, quello di Marlene Dietrich, di George Bernard Shaw, ma anche di Joseph Goebbels, Hitler e Mussolini e il reportage sulla guerra tra Italia ed Etiopia. Lavora per la «Berliner Illustrierte Zeitung» e per altri quotidiani di Berlino e Parigi. A causa della situazione politica in Germania e nella speranza di trovare migliori possibilità di lavoro, Eisenstaedt, nel 1935, emigra negli Stati Uniti dove, in un primo tempo, lavora per «Harper's Bazaar», «Vogue» e «Town and Country». Arriva a New York proprio quando la rivista «Life» viene lanciata ed entra a far parte dei suoi collaboratori fissi già all'inizio dei 1936. Prima della temporanea sospensione della pubblicazione di quest'ultima nel 1972, Eisenstaedt ha già ottenuto più di 2500 incarichi e realizzato fotografie per più di 90 copertine; come fotoreporter non è specializzato in nessun particolare settore, ma è entrato nella storia della fotografia soprattutto per i suoi ritratti. Ha immortalato non soltanto innumerevoli personaggi famosi della cultura e della politica, ma anche uomini sconosciuti ripresi nella vita di tutti i giorni. E' famosa la fotografia intitolata Il giorno della vittoria, l'istantanea di un appassionato bacio durante la parata dei marine vittoriosi in Times Square alla fine della seconda guerra mondiale. Eisenstaedt è un pioniere della fotografia con luce naturale poiché è tra i primi a rinunciare al flash per sfruttare l'ambiente naturale e l'atmosfera da esso prodotto. Peter Pollack scrive di lui: «Punto di forza delle sue fotografie è la semplicità della loro composizione. I ritratti di Eisenstaedt rivelano chiaramente lo spirito e il carattere della persona, famosa o sconosciuta che sia. Per la loro familiarità, le sue opere fanno sentire partecipe l'osservatore e gli danno la sensazione di essere presente accanto al fotografo». Eisenstaedt ha ricevuto numerosi premi internazionali ed è tra i fotoreporter più pubblicati dei mondo.
a cura di Andrea Plebani
Ansel Adams
nato nel 1902 a San Francisco e deceduto a Carmel in California nel nel 1984. Nel 1916, Ansel Adams scatta le sue prime fotografie durante un soggiorno di vanza al Yosemite National Park della California. Già allora si annunciano i contenuti della sua futura attività artistica: il collegamento tra l'interesse per la fotografia e l'amore e l'impegno nei confronti del paesaggio americano. In un primo momento, tuttavia, Adams sceglie di studiare pianoforte. Solo grazie all'incontro con Paul Strand nel 1930 scopre nella fotografia il suo vero mezzo espressivo. Nel 1932, insieme ai fotografi costituisce il gruppo "f-64". I membri si schierano in modo dogmatico a favore di una fotografia caratterizzata dalla massima profondità di campo e accuratezza dei dettagli. Nel 1941 il fotografo mette a punto il suo "sistema a zone", uno strumento per determinare il tempo di posa e di sviluppo, che consente una gradazione ottimale delle componenti del grigio. Adams illustra le proprie concezioni e tecniche in numerosi libri e seminari. Nel 1946 fonda l'istituto di fotografia all'interno della California School of Fine Arts di San Francisco. Nel 1962, sceglie di vivere in pianta stabile nelle Carmel Highlands. Come fotografo di paesaggi, Adams ha trascorso gran parte della sua vita nei parchi nazionali americani, cui ha dedicato oltre 24 volumi. La sua attività non si è limitata alla fotografia fine a se stessa, ma ha sensibilizzato il pubblico alla causa dei parchi: egli ne ha sostenuto infatti il mantenimento e contribuito all'istituzione di nuovi. sua la famosa frase "Ci sono due persone in ogni foto: il fotografo e l’osservatore”
a cura di Andrea Plebani
Henri Cartier-Bresson
Henri Cartier-Bresson, nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup (Francia) Inizialmente si interessa solo di pittura ma dagli inizi degli anni '30 sceglie definitivamente di sposare la fotografia. Nel 1931, a soli 23 anni, ritornato in Francia dopo un anno in Costa d'Avorio, scopre la gioia di fotografare, compra una Leica e parte per un viaggio che lo porta nel sud della Francia, in Spagna, in Italia e in Messico. La Leica con la sua maneggevolezza e la pellicola 24x36 inaugurano un modo nuovo di rapportarsi al reale, sono strumenti flessibili che si adattano straordinariamente all'occhio sempre mobile e sensibile del fotografo. L'ansia che rode Cartier-Bresson in questo suo viaggio fra le immagini del mondo lo porta ad una curiosità insaziabile, incompatibile con l'ambiente borghese che lo circonda, di cui non tollera l'immobilismo e la chiusura, la piccolezza degli orizzonti. Nel 1935 negli USA inizia a lavorare per il cinema con Paul Strand; tiene nel 1932 la sua prima mostra nella galleria Julien Levy. Tornato in Francia continua per qualche tempo a lavorare nel cinema con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi fotografie di reportage. Ed è soprattutto nel reportage che Cartier-Bresson mette in pratica tutta la sua abilità e ha modo di applicare la sua filosofia del "momento decisivo": una strada che lo porterà ad essere facilmente riconoscibile, un marchio di fabbrica che lo distanzia mille miglia dalle confezioni di immagini celebri e costruite. Ormai è diventato un fotografo importante. Catturato nel 1940 dai tedeschi, dopo 35 mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce a evadere dal campo e fa ritorno in Francia nel 1943, a Parigi, dove ne fotografa la liberazione. Qui entra a far parte dell'MNPGD, un movimento clandestino che si occupa di organizzare l'assistenza per prigionieri di guerra evasi e ricercati. Finita la guerra ritorna al cinema e dirige il film "Le Retour". Negli anni 1946-47 è negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per Harper's Bazaar. Nel 1947 al Museum of Modern Art di New York viene allestita, a sua insaputa, una mostra "postuma"; si era infatti diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra. Nel 1947 insieme ai suoi amici Robert Capa, David "Chim" Seymour, George Rodger e William Vandivert (un manipolo di "avventurieri mossi da un'etica", come amava definirli), fonda la Magnum Photos, cooperativa di fotografi destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo. Dal 1948 al 1950 è in Estremo Oriente. Nel 1952 pubblica "Images à la sauvette", una raccolta di sue foto (con copertina, nientemeno, che di Matisse), che ha un'immediata e vastissima eco internazionale. Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, che farà poi il giro del mondo, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Dopo una serie di viaggi (Cuba, Messico, India e Giappone), dal 1966 si dedica progressivamente sempre più al disegno. Innumerevoli, in questi anni, sono i riconoscimenti ricevuti, così come le esposizioni organizzate e le pubblicazioni che in tutto il mondo hanno reso omaggio alla sua straordinaria produzione di fotografo e di pittore. Dal 1988 il Centre National de la Photographie di Parigi ha istituito il Gran Premio Internazionale di Fotografia, intitolandolo a lui. Oltre ad essere universalmente riconosciuto tra i più grandi fotografi del secolo, Henri Cartier-Bresson ha avuto un ruolo fondamentale nella teorizzazione dell'atto del fotografare, tradotto tra l'altro nella già ricordata e celebre definizione del "momento decisivo". Poco prima di raggiungere i 96 anni, è morto a Parigi il 2 agosto 2004. La notizia ha commosso e fatto il giro del mondo solo due giorni più tardi, dopo i funerali.
H.C. Bresson è l'autore di una affermazione che troviamo nell'80% delle firme nei forum di fotografia:"fotografare è mettere sullo stesso piano occhio, mente e cuore."
L'artista francese non ha perso occasione di ripetere che non si può imparare a fotografare: dotato di grande intelligenza e di notevole capacità di reazione, egli rivela nelle situazioni che gli interessano una sensibilità che gli consente di trovarsi al momento giusto nel posto giusto e di scattare quando la situazione raggiunge l'apice, riuscendo a strappare alla fugacità un frammento di realtà, a gabbare, per così dire, il tempo. La concezione di Cartier-Bresson si fonda sull'assunto che la fotografia è in grado di riprodurre fedelmente la realtà e che in essa si nasconde la possibilità della verità. Il suo modo di fare fotografia è possibile soltanto a partire da questo presupposto, perché il momento di cui egli parla, quello «decisivo», è tale soltanto in base alla situazione vissuta e richiede quindi un rapporto diretto con la realtà per poter essere inteso come tale. In questo senso Cartier-Bresson è stato un acuto osservatore, un uomo dall'occhio sapiente, che sa che cosa vuole e che cosa gli interessa. Una volta si è paragonato a un pescatore che ha già un pesce all'amo, per il quale la cosa più importante è avvicinarsi con molta cautela alla preda e colpire al momento giusto.
a cura di Andrea Plebani
Angelo Cozzi
Accendo il registratore e inizio con la prima striscia, quella della sua vita. Anche Angelo vestiva alla marinara. Lo testimonia un’inequivocabile immagine degli anni cinquanta. Doverosamente ritoccata e flou lo ritrae in bianca divisa da marinaio. Non è per la Prima Comunione, come d’abitudine ai tempi. Sul bordo del cappello leggiamo Marina Militare. Servire in armi la Patria era ancora obbligatorio: rito di passaggio all’età adulta. Per lui fu continuare nel lavoro, che era anche passione, di fotografo. Questa, però, avrebbe detto il suo amato Kipling, è un’altra storia. Allora facciamo un passo indietro. Lo si fa in ogni storia che si rispetti e come fa Angelo nel raccontare la sua vita. E’ un incessante spostarsi avanti e indietro nel tempo. Un flusso continuo di episodi brevi e di storie lunghe che irrompono come spingendosi attraverso il collo stretto di un imbuto. Tanto Angelo è meticoloso nel lavoro e nella vita, tanto è caotico nel raccontare. Procede per libere associazioni. E, se queste lo fanno scivolare nel tempo: peggio per le associazioni. “ …non guardo mai la mia carta d’identità, l’età è quella che mi sento…” risponde quando cerco di mettere un po’ ordine nella cascata che mi sommerge e confonde. Riesco a sapere che è nato nel 1934. Ciò, devo confessare, ha poca importanza. Angelo vive nel presente con progetti per il futuro. E’ di quelle persone che riescono sempre ad avere più progetti che ricordi. “… mio padre commerciava in droghe e… – fa una pausa guardandomi sornione -…e coloniali. Droghe e coloniali, era l’insegna che al tempo indicava la drogheria, il pizzicagnolo. Aveva magazzino all’ingrosso e riforniva i negozi di Milano. Eravamo quattro fratelli: nessuno ha proseguito l’attività….”. Da ragazzino Angelo era affascinato dall’elettricità. La usava per fare scherzi. Si divertiva a cambiare polarità agli interruttori di casa e stupire e confondere i parenti con luci che si accedevano da sole o non si accendevano affatto, quando avrebbero dovuto farlo. Dopo le medie, il padre sognava per lui l’Istituto per Ragionieri. Nell’azienda di famiglia ci sarebbe stato bene un “ragiunatt”. Vennero a un compromesso: Istituto Tecnico Feltrinelli, dove insegnavano anche elettricità ed elettronica. Era quella l’innovazione dei tempi, come oggi è l’informatica. Grande successo riscuoteva la Scuola Radio Elettra di Torino. Forniva diplomi per corrispondenza e circuiti da assemblare. “…Al Feltrinelli mi diedero un approssimativo cubo di ferro: dovevo limarlo, fino ad avere le otto facce perfettamente pian-parallele. Era l’esercizio detto aggiustaggio. Dopo un anno, buttai il cubo dalla finestra …”. Davanti al Feltrinelli c’era un’altra scuola: il Galileo Galilei. Proprio allora iniziava un corso sperimentale di fotografia. “M’iscrissi, senza nemmeno sapere cosa fosse la fotografia. Orario pieno: in tram non facevo in tempo a tornare a casa per pranzo. Di motorini nemmeno si parlava. Davanti alla scuola arrivava, a mezzogiorno, un ambulante che vendeva castagnaccio e farinata. Mi nutrivo con gran fette di castagnaccio, passeggiando nei dintorni in attesa delle lezioni del pomeriggio.
Lo staff di Epoca che seguì il viaggio in Terrasanta di Paolo VI, da sinistra:Sergio Del Grande, Walter Mori, Angelo Cozzi, Giorgio Lotti, Mario De Biasi
Era il quartiere di Porta Ticinese, dove aveva sede l’agenzia Farabola. Nelle vetrine esponeva le foto di cronaca. Mi fermavo sempre a guardarle. Non dovevi limare un cubo di ferro per diventare fotografo. Un giorno presi coraggio ed entrai. C’era Tullio Farabola, figlio del proprietario. Dissi che volevo lavorare nella sua agenzia. Mi piaceva l’idea di stare accanto a nomi già famosi nel campo del reportage: Del Grande, Pascuttini.…vieni domenica - mi disse Farabola - e ti faccio riprendere le partite di calcio. La domenica ero in agenzia, emozionato per il lavoro da vero fotografo che mi aspettava. Mi consegnarono una Bectar, fotocamera a telemetro, a lastre 9x12, costruita a Milano da Bettoni & Rigamonti. Era quanto di meglio ci fosse, almeno da noi….”. Il ragazzino Cozzi fa, orgogliosamente, ingresso in campo tra fotografi veri, per riprendere una vera partita. Uno sballo, si direbbe oggi. Una delusione, per lui, che non aveva ancora esperienza delle durezze della professione. “ …Farabola mi diede una lastra, dico una e mi piazzò dietro una porta, raccomandandomi di scattare la foto se avessero segnato. Capii, dopo, che quella era la porta sbagliata; in quella non avrebbero fatto gol…”. Non so come Freud avrebbe battezzato la sindrome, ma da allora Angelo odia il calcio. Nel suo archivio trovi di tutto: dalle guerre alle attrici; dal turismo agli elettrodomestici, non una foto di calcio. A dire il vero una c’è: la copertina di una Domenica del Corriere. Non so come gliel’abbiano estorta. Per qualsiasi editore lavorasse, in contratto metteva sempre una clausola: potete chiedermi tutto, non di fotografare il calcio. “Quella copertina fu un caso…” glissa quando vuoi saperne di più. E torna a quegli inizi da giovane di bottega presso Farabola. Erano servizi fotografici banali, ma che insegnavano il mestiere. “…Spesso Farabola mi dava una Rollei 6x6 e mi mandava al deposito dei tram di via Teodosio o di Porta Ticinese a fotografare i tram incidentati. Le riprese servivano per i rimborsi dell’assicurazione...”. Calcio a parte, il giovane Cozzi non si tira mai indietro. Finché arriva la grande occasione: novembre 1951, alluvione in Polesine. Ha diciassette anni e ci va in divisa da boy scout. Era veramente boy scout ma, la scelta di andarci vestito in quel modo, credo sia stata una delle sue astuzie da reporter di razza. Poteva confondersi con i soccorritori. “…Fu il mio primo, grande servizio… purtroppo non riesco più a trovare le foto… avevo anche ripreso la Merlin, con stivaloni, in mezzo metro d’acqua…”. Quello era il collegio elettorale della senatrice Lina Merlin. Passò alla storia come promotrice della legge per l’abolizione delle “case chiuse”. Eufemismo con il quale i giornali indicavano i bordelli. La legge fu promulgata pochi anni più tardi, nel 1958.
Non disturbare, raccolta dei cartelli che si appendono alle maniglie delle camere d'albergo
Tutti immaginiamo il reporter che viaggia il mondo, che fotografa guerre, rivoluzioni, personaggi famosi, come un personaggio di Hemingway: estroverso, genio e sregolatezza. In tutti questi anni, da che lo conosco, non ho mai visto Angelo sopra le righe, mai alzare la voce, mai perdere una tranquillità imperturbabile. Ti fissa con quei suoi occhi azzurri e uno sguardo da timido. Ho potuto leggere alcune lettere che mandò a editori e clienti per chiudere un rapporto: finali e definitive. Lo stesso accade quando tronca un rapporto personale: finale e definitivo. Dio ci guardi dall’ira dei mansueti. “…Sono un timido; forse lo sono ancora adesso, alla mia età. Con la fotografia scopersi che potevo nascondermi dietro la macchina fotografica. Nessuno vede la mia faccia: posso arrossire, commuovermi, arrabbiarmi senza che nessuno se ne accorga…”. Da una divisa all’altra: quella da boy scout lo aiutò in Polesine. Quella da marinaio l’aiutava… quando se la toglieva. Non è un gioco di parole. In una lettera, con timbri e controtimbri, lo Stato Maggiore autorizza il sottocapo Angelo Cozzi all’espatrio per diporto. Era una missione, camuffata da vacanza, nell’Egitto degli anni Cinquanta. Doveva riprendere, da turista, le navi sovietiche. Nel medesimo periodo lo troviamo anche rannicchiato sotto il bancone del controllo passaporti di Ciampino, allora aeroporto di Roma, mentre fotografa i documenti di certi sedicenti uomini d’affari e turisti provenienti dall’Est. Eravamo in piena Guerra Fredda e la Rollei 6x6, dotata di lenti addizionali, era quanto di più tecnologicamente avanzato ci fosse, per copiare velocemente passaporti e fototessere. Saudade è il filo conduttore, nel racconto della vita di Angelo. “…Andare con la memoria ai tempi passati, ma non perduti. Un canto navajo ammonisce a ricordare tutto quello che hai visto, perché le cose dimenticate tornano a volare nel vento…”. Nostalgia, la chiamavano i Greci. Il significato è più profondo di quello, banale, che la parola possiede ai nostri tempi. Nostos, ritorno e Alghìa, dolore: il dolore del ritorno. E’ Ulisse che torna da Penelope ed è felice ma pensa con tenerezza alle avventure perdute. Di trucchi è fatta la vita del reporter, se vuole portare a casa il servizio. Ancora oggi il modo migliore di risolvere situazioni intricate è avere in tasca un bel rotolo di dollari. I mezzi che, spesso, usi per spostarti al seguito degli avvenimenti, non sono nei programmi delle agenzie di viaggio. Quelli che puoi pagare con carta di credito. “…Il giornale mi dava una Air Travel Card, una specie di bancomat col quale potevi acquistare, in tutto il mondo, un biglietto aereo delle più importanti compagnie. Però dovevi, comunque, avere una certa somma per far fronte alle emergenze. A volte portavo con me anche cinquemila dollari. Una bella somma per i tempi. Mica potevo tenerli nel portafoglio. Feci cucire, dietro le due tasche posteriori dei pantaloni, altre due piccole tasche grandi quanto un biglietto da un dollaro, piegato a metà. Li chiudeva una sottilissima chiusura lampo, che si poteva aprire solo dall’interno dei pantaloni. I dollari in banconota, qualunque sia il taglio, hanno tutti la stessa dimensione. In ciascuna tasca potevano stare fino a quaranta banconote. Se queste erano tagli da 100 dollari il conto del capitale che nascondevo è presto fatto.”. I trucchi che escono dal suo cappello da prestigiatore sono tanti. Poco dopo la rivolta d’Ungheria del 1956 andò in quel Paese facendosi passare per accompagnatore della squadra italiana di nuoto. Non ricordiamo le foto del campionato, ma quelle di un’ Ungheria povera e triste sotto il tallone della repressione sovietica. Un bel servizio, acquistato da Mondadori e pubblicato con rilievo da Epoca. Immagini che non sarebbero certo state approvate dal regime.
Elena Zennaro, la prima moglie di Cozzi
Fece uscire i rullini di quel servizio nascosti tra la biancheria sporca di Elena, l’atleta azzurra (due Olimpiadi Melbourne e Roma) che sarebbe diventata sua moglie da lì a pochi anni. “…Avevamo deciso di sposarci il 28 settembre del 1963 nella chiesa di Santo Stefano di Cadore dove era nata. Il 28 perché stava in mezzo alle nostre due date di nascita: 27 il suo, 29 il mio….”. Avevano pensato a tutto, gli sposi: fiori, ristorante, albergo, il pranzo e il menù ma… è la stampa, bellezza. Quel giorno Angelo stava a due chilometri di profondità in una miniera d’oro sudafricana per un servizio della rivista Grazia. Matrimonio rimandato al 12 ottobre. Questa volta l’intoppo non fu causa del giornale. Il nove sera il monte Toc frana nell’invaso del Vajont. Le strade del Cadore sono bloccate. Partito da Milano, Angelo deve fare un lungo giro su strade secondarie per raggiungere Santo Stefano. Lo attende una chiesa disadorna: tutti i fiori della zona sono per i morti di Longarone. L’albergo è chiuso perché la stagione è finita. Un sì frettoloso e subito in auto alla volta di Milano. Ci sono da fare le didascalie del servizio che, nel frattempo il grafico ha impaginato. Viaggio di nozze? Sarà per un'altra volta. “…A fare questo mestiere - confida Angelo – esci la mattina e non sai in che letto dormirai la sera. Manchi agli anniversari importanti, anteponi il lavoro alla famiglia. Sono grato ad Elena per avermi sopportato diciassette anni...”. Diciassette anni e una figlia, Anna, che incontrai bambina, accovacciata su questo sofà dove siedo adesso, ad ascoltare Angelo. Attorno, tanti libri e alle pareti una collezione di naif che gli invidio. Un posto caldo, illuminato bene. Una casa vera, con il padrone che se l’è costruita attorno, un pezzo dopo l’altro. Un buen retiro. Il reporter è, come si dice, cittadino del mondo. Con un po’ di civetteria Angelo elenca i negozi d’abbigliamento che gli sono abituali. Le mutande sono di Eminence, negozio di Parigi, sugli Champs Elisées, vicino al Lido; calze, correttamente lunghe al polpaccio, sono le Schostal, in cotone, che comperi in via Fontanella Borghese 29 a Roma; camicie, ovvio, Arrow e Bancroft, bottoncini al collo e taschino, in Madison Avenue a New York, il negozio è nello stesso palazzo dell’hotel Roosevelt; maglie in lana intimo Hanro, acquistate a Lugano. L’elenco continua e tocca anche le piccole cose. Il dopobarba è prodotto nella farmacia Santa Maria Novella in via della Scala 16, a Firenze e ha nome antico “ Contro il fuoco del rasoio”. La puntigliosità di Angelo nell’affrontare gli imprevisti del mestiere è proverbiale. C’è chi li affronta con un filosofico inshallah. Non è lui. La sua borsa di pronto soccorso fa invidia a quella di un farmacista. Offre quarantotto specialità medicinali, scelte per far fronte a qualsiasi evenienza. Molti colleghi gli debbono un grazie, per un paio di pastiglie che li hanno rimessi in sesto nei più sperduti angoli del mondo. Galeotti furono quei medicinali. “…Il ventidue agosto 1995 ero a Santiago de Cuba – racconta Angelo – per uno dei miei soliti viaggi di lavoro. Carmen Rosa Almenares Acosta era la mia interfaccia con l’esterno: conosce tutto e tutti, di Santiago e dell’Oriente di Cuba. Una simpatica signora, molto estroversa, che un giorno si precipita da me. La nipotina si era scottata con una pentola d’acqua bollente. Urgeva una pomata, che nelle farmacie di Cuba non si trovava. Forse l’avevano alla Farmacia Internazionale, quella riservata ai turisti, dove i cubani non possono entrare. Feci di meglio, guardai nella mia personale farmacia e tirai fuori un tubetto di Foille, specifico per le ustioni. In tre giorni Lennia, questo il nome della nipotina, si era rimessa, senza che una cicatrice le rovinasse il bel volto d’adolescente. Negli anni successivi tornai più volte a Santiago e sempre passavo a salutarla e ogni volta la trovavo più bella e più donna. Mi fece anche da modella, per campagne pubblicitarie di Francorosso e dello stesso ufficio del Turismo di Santiago...”. Con Lennia, Angelo ritrovava sorrisi dimenticati da tempo.
Lennia e Angelo il giorno del matrimonio
Il quindici luglio del 2000 ricevetti una mail, allegata una fotografia di Angelo accanto a una giovane donna vestita da sposa. Ti presento mia moglie, mi sono sposato ieri, recitava la didascalia. Impagabile. Nemmeno in quell’occasione Angelo dimenticava una regola importante del giornalismo: sempre scrivere la didascalia alle foto. “…Un matrimonio un po’ folle - ricorda - visto con gli occhi di molti. Sono passati dodici anni e sono ancora felice con Lennia, oramai cittadina italiana, che non ha dimenticato le abitudini cubane: riso la base principale dei pasti, musica accesa appena entra in casa e televisione sul canale di Cuba. Che dire? Sono felice…”. Le luci di Milano sbiadiscono oltre i vetri. Al sesto piano non giunge il rumore del traffico. Siamo sospesi in una nuvola di ricordi. Quelle luci potrebbero essere di qualsiasi luogo. Ottantotto sono i Paesi in cui Angelo si è fermato o è passato. Ottantotto le sue “Case in giro per il mondo”, come indica gli alberghi in cui è stato e ritornato. Per ognuno ha un racconto; un intrecciarsi di racconti, come abitudine di Angelo. “…a New York scendevo al Roosevelt al 45 della Madison, vicino al sottopasso che porta alla Grand Central Station. Negli anni Sessanta e Settanta, era l’albergo degli equipaggi Alitalia. Un posto strategico per fare conoscenze, stringere amicizie, con piloti e hostess, che mi sono servite spesso per trovare un volo all’ultimo momento, oppure per affidare rullini che dovevano arrivare velocemente al giornale. Se penso Parigi, l’hotel è il Bonaparte, in rue Bonaparte 61. Piccolo, economico, vicino a una delle più famose librerie specializzate in fotografia. Qui comprai le prime edizioni di Cartier-Bresson, di Clergue, di Irina Jonesco. E che dire del Grand Hotel et Des Palmes di Palermo? Un posto d’osservazione interessante: politici e mafiosi di alto livello. Portiere gentilissimo ma tombale. Avevo appuntamento nella hall con un noto politico, conosciuto da tutti, di quelli con la foto sui giornali. Scendo e chiedo di lui al portiere. Serissimo dice non averlo visto. Giro gli occhi e lui era lì, a un paio di metri. Una gran risata di tutti e uno sguardo d’intesa tra politico e portiere. Bravo picciotto, deve aver pensato. Alla disponibilità di quel portiere devo un appuntamento con la sorella del bandito Giuliano e tre libri dimenticati: Rapporto sulla Mafia; Tre bandiere per Salvatore giuliano; Zagare, arance e limoni…”. I ricordi di Angelo, sulle sue case nel mondo occuperebbero, da soli, un ponderoso volume. Accantoniamoli con la formula che userò spesso in questo fluire di ricordi: ma questa è un’altra storia. Che continuerà nella prossima striscia.
a cura di emmerre
Robert Doisneau
era un fotografo nato esattamente cento anni fa 14 aprile 1912 a Gentilly, Val-de-Marne, alla periferia di Parigi, in Francia. Insieme a Henri Cartier-Bresson, Doisneau è stato un pioniere del fotogiornalismo ed è diventato famoso negli anni soprattutto per le foto che scattava in strada. Nelle vie delle periferie e del centro, Doisneau riusciva a cogliere gli aspetti più inaspettati, contraddittori e curiosi della società parigina e francese. Tuttavia, Doisneau teneva a precisare che: Io non fotografo la vita reale, ma la vita che mi piacerebbe che fosse Proprio uno di questi scatti “stradali” è stata la sua opera più famosa, il “Bacio all’Hotel De Ville“, in cui due giovani si baciano appassionatamente in mezzo a una strada di Parigi, tra la gente che cammina e che sembra non accorgersi della scena. La foto fu scattata nel 1950 e venne pubblicata il 12 giugno dello stesso anno dal magazine Life. Fino al 1992 l’identità dei due ragazzi è stata un mistero: inizialmente si pensava che i due si chiamassero Jean e Denise Lavergne, ma poi lo stesso Doisneau ha confermato che i protagonisti della foto erano due aspiranti attori, Françoise Delbart, di 20 anni, e Jacques Carteaud, 23 anni. La relazione tra i due ragazzi, tuttavia, durò solo 9 mesi. Nato nel 1912 e orfano sin da quando aveva 7 anni, da ragazzo studiò litografia all’école Estienne, presso Chantilly. Dopo esser stato assistente del fotografo modernista André Vigneau, venne assunto all’età di ventidue anni dalla Renault come fotografo industriale, ma presto venne licenziato perché arrivava spesso al lavoro in ritardo. Nel 1939 venne assunto dall’agenzia fotografica Rapho, per la quale lavorò per circa cinquant’anni nonostante le successive pressioni di Henri Cartier-Bresson per farlo passare alla sua agenzia, Magnum Photos. Lavorò al fronte durante la Seconda guerra mondiale per poi tornare a Parigi e fare carriera con le sue foto di strada, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. I suoi servizi vennero pubblicati dai magazine Life e Vogue e collaborò con scrittori come Blaise Cendrars and Jacques Prevert. Uno dei tratti distintivi di Doisneau, soprattutto all’inizio della sua carriera, fu quello di rappresentare in foto la cultura dei bambini di strada e dei loro giochi, alla quale riusciva a conferire, nonostante le giovani età dei suoi soggetti, rispetto e serietà. Doisneau, che viene definito per i suoi ritratti un esponente della “fotografia umanista”, fu influenzato dall’opera di André Kertész, Eugène Atget e Henri Cartier-Bresson e vinse il Kodak Prize nel 1947. Doisneau morì il 1 aprile 1994 a Montrouge, alla periferia di Parigi, dove aveva vissuto per molti anni, ed è sepolto a Raizeux, accanto alla tomba della moglie.
a cura di enzocala
Elliott Erwitt
Elliott Erwitt nasce il 26 luglio 1928 a Parigi, passa la sua infanzia a Milano, si trasferisce nuovamente a Parigi e poi, in via definitiva negli stati Uniti, prima a New York, poi nel 1941 a Los Angeles. La sua passione per la fotografia si manifesta già nella sua adolescenza quando viveva ad Hollywood, mentre studiava alla High School comincia a lavorare in una camera oscura professionale già nel 1944. Nel 1948 si sposta a New York, e lì incontra Steichen, Robert Capa, e Roy Striker. Dopo aver passato il 1949 a viaggiare in Francia ed in Italia, Erwitt rientra a New York ed inizia a lavorare come fotografo professionista. Arruuolato nell'esercito Americano nel 1951, continua a scattare immagini mentre era di stanza in Germania ed in Francia. Nel 1953 Robert Capa lo invita ad entrare in Magnum Photos. Elliott rimarrà membro di questo prestigioso gruppo da allora, e ne sarà presidente numerose volte. Elliott è a buon diritto una delle personalità di spicco del mondo dell'informazione, i suoi servizi fotografici, le sue illustrazioni, e le sue immagini realizzate per il mondo della comunicazione hanno lasciato il segno su testate di tutto il mondo negli ultimi 50 anni. Elliott, pur continuando ad essere fotografo prima di tutto, nel 1970 inizia a girare film. I suoi documentari numerosi includono BEAUTY KNOWS NO PAIN (1971),RED WHITE AND BLUEGRASS (1973) realizzato con l'assitenza dell'American Film Institute, e GLASS MAKERS OF HERAT (1977) che gli varrà numerosi premi. Nell'insieme Erwitt ha realizzato 17 commedie e filmati satirici per Home Box Office. Elliott incontra Biba Giacchetti nel 1997 e da allora attiva una collaborazione straordinaria nel settore della comunicazione in Italia. Quando Biba Giacchetti e Giuseppe Ceroni fondano Sudest57 nel 2002 Elliott Erwitt sarà tra i primi fotografi a fare parte del nuovo team, ad esserne ispirazione costante, maestro, sostenitore e grande amico. Nel tempo Elliott Erwitt ha realizzato con Biba Giacchetti progetti per Lavazza, Marazzi, Unilever, Luciano Barbera, Artemide, Chimento, e moltissimi altri. Biba Giacchetti ha curato la mostra di Elliott Erwitt "This and That" tenuta presso la galleria Spazia di Bologna. Le sue mostre personali si tengono continuamente in ogni angolo della terra dal Museo d'Arte Moderna di New York, allo Smithsonian, dall'Art Institute di Chicago al Museo D'arte Moderna di Parigi, dalla Kunsthaus di Zurigo al Photokina di Colonia. Moltissime mostre tratte dal libro Personal Exposures sono state esibite da dagli Stati Uniti all'Europa al Giappone. Altre mostre in circolazione come To The Dogs, On The Beach, Museum Watching Personal Best sono in circolazione in tutti i paesi del mondo. Attualmente Elliott è impegnato nella codificazione del suo immenso archivio mentre continua il suo lavoro editoriale e pubblicitario. Questo inevitabilmente lo porta a viaggiare ossessivamente per il mondo. Elliott Vive tra New York ed East Hampton. Gli piacciono i bambini, ed i cani. Ma a parte l'amore per questi e altri animali, quello dei cani un pallino che per Elliott Erwitt viene da lontano, addirittura dagli albori della sua carriera fotografica. E' il 1946 e un Erwitt diciottenne, scende dal pullman della Greyhound per New York, in quel momento l'intuizione o forse l'istinto, lo spingono a fotografare un cagnolino che indossa un pullover, la sua padrona non altro che un enorme paio di tacchi e una gonna, il primo scatto. Da allora un susseguirsi di immagini dove gli aspetti meschini, squallidi, crudeli, drammatici o semplicemente angosciosi del nostro quotidiano, non sono nascosti ma semplicemente messi da parte e ignorati da un uomo e un fotografo, che ha nelle sue corde il linguaggio del benevolo sarcasmo. La sua naturale evoluzione artistica, lo ha portato a livelli di perfezione formale di valore assoluto, ma il solco della consapevole eppure candida dissacrazione non lo ha mai lasciato.
L'immagine a destra è la versione Elliott Erwitt di Cartier-Bresson famoso "momento decisivo" shot? Non so se questa immagine è stata messa in scena o è un'istantanea, ma è sicuramente un omaggio al shot di Bresson ... ma basta guardare la freschezza e la chiarezza dei personaggi che si stagliano, e come le molte figure piccole in background (statue sul edificio, l'uomo sotto la Torre Eiffel, persone che camminano sul lato destro della foto) i personaggi in primo piano. La giustapposizione dell'ombrello aperto uomo che salta e l'inside-out ombrello della coppia. Mi piace moltissimo, un triste, piovoso, giorno afoso parigino che (in virtù della esuberanza di saltare dell'uomo) è diventato una favola. (commento personale di enzocala)
a cura di stefanoholden
André Friedmann (Robert Capa)
1913 Budapest - 1954 Thai-Binh,Vietnam
Robert Capa studia scienze politiche dal 1931 al 1933 all'Università di Berlino. Fotografo autodidatta, nel 1931 lavora già come assistente per Ullstein e dal 1932 al 1933 per Dephot (Deutscher Photodienst, il servizio tedesco per la fotografia). Nel 1933, si trasferisce a Parigi dove assume il nome di Robert Capa e svolge l'attività di freelance. Le sue fotografie della guerra civile di Spagna risvegliano grande attenzione: la prima serie contiene già "Miliziano colpito a morte", la sua opera finora più famosa e più discussa. Alcuni hanno sostenuto che questa fotografia sia un falso, costruito in studio da Capa.
il messaggio non cambierebbe, nè il suo potere concettuale. Per tutta la vita rimane fedele al mestiere dell'inviato di guerra: soggiorna in Cina, Italia, Francia, Germania e Israele. Il 25 maggio 1954 muore a Thai-Binh (Indocina) per lo scoppio di una mina.
La sua morte è la tragica conseguenza dei suo principio: «Se le tue fotografie non sono abbastanza belle, non sei abbastanza vicino». La sua capacità di sintetizzare con una sola immagine i sentimenti e il dolori di un popolo dilaniato dalla guerra civile o dalla rivolta suscita grande ammirazione. Tutte le sue opere hanno un elemento in comune: testimoniano il fascino che su di lui esercita l'uomo sempre in bilico tra la volontà di vivere e la propensione all'autodistruzione.
Famoso per la sua temerarietà, sbarcò con il primo contingente americano, il 6 giugno 1944 a Omaha-beach in Normandia, paracadutandosi da un aereo assieme ai militari per ritrarre da vicino lo sbarco. Purtroppo la maggior parte delle foto scattate quel giorno, a causa di un errore del laboratorio, andarono perdute, si salvarono solo undici fotogrammi danneggiati, che trasmettono tutta la drammaticità dell'impresa, la maggior parte sono, citando le parole di Capa: slightly out of focus ovvero leggermente fuori fuoco. Nome non a caso, Robert intitolò l'autobiografia pubblicata nel 1947.
La grande passione per il suo lavoro ne ha fatto il più famoso inviato di guerra dei secolo; Capa ha senza dubbio fatto scuola e costituito un esempio da imitare non soltanto nel campo della fotografia, poiché la sua opera è al tempo stesso un manifesto contro la guerra, l'ingiustizia e l'oppressione. Nel 1955 è stato istituito il premio Robert Capa-Gold-Medal-Award in sua nemoria e a lui si deve l'International Fund for Concerned Photography. Il fratello Cornell Capa ha fondato l'International Center of Photography di New York, anche per conservare le opere di Robert e per renderle accessibili al grande pubblico.
a cura di Andrea Plebani
Haas Ernst
1921 Vienna - 1986 New York Ernst Haas scopre molto presto la sua passione per la fotografia, a quanto afferma, già da bambino. Comincia a diventare famoso quando lavora come fotoreporter freelance per le riviste «Der Film» e «Heute» intorno al 1950. Queste fotografie, pervase di grande tensione, ritraggono l'arrivo del treno su cui viaggiano i soldati tornati dalla guerra. Poco dopo entra a far parte dell'agenzia Magnum. A partire dal 1951, Haas usa prevalentemente materiale a colori e lavora come collaboratore indipendente per riviste come «Life», «Look», «Vogue» e «Holiday». Realizza così immagini di una città magica, servizio su New York, e Magico colore in movimento, reportage sportivo. Haas prende sempre più le distanze dalla fotografia giornalistica sensazionalistica; nel 1964 produce i Giorni della Creazione per il film di John Huston La Bibbia, mentre il relativo libro La Creazione viene pubblicato nel 1971. Il fotografo viennese sperimenta a questo punto anche le tecniche audiovisive. Come rivelano Show floreale del 1983 e la raccolta di immagini dal titolo Fiori, i particolari botanici sono un soggetto importante dell'opera dei suoi ultimi anni. Poco prima di morire improvvisamente nel settembre dei 1986, Haas presenta la sua produzione audiovisiva Astratti. Vi è, nella biografia di Ernst Haas, una ricorrenza di casualità piuttosto sorprendente. A Vienna, nell'immediato dopoguerra, studia fotografia al Graphische Lehr und Versuch Anstalt, ma la sua visione è troppo trasgressiva rispetto ai moduli d'insegnamento e gli viene consigliato di ritirarsi dal corso. Segue allora il proprio istinto e cerca le sue immagini nelle strade di una città ridotta ad un cumulo di macerie, soffermandosi su inconsueti episodi che descrivono con incisività delicate speranze o sofferte esperienze. Un'imprevista attesa alla stazione ferroviaria lo coinvolge all'arrivo del treno che riporta dalla Russia i prigionieri di guerra. Il momento è toccante, evidente è la tensione dei sentimenti che si alternano tra gioia, delusione e fiduciosa volontà. Quelle poche immagini, con il titolo E le donne stanno aspettando..., saranno pubblicate nel 1949 sulla rivista "Heute" del governo militare degli Stati Uniti nei territori occupati. Robert Capa, che dirige a Parigi l'appena nata agenzia Magnum Photos, rimane colpito dalla rara qualità del suo lavoro e invita Haas a unirsi all'ancora minuscolo gruppo di fotografi. Oggi Haas è considerato uno dei pionieri, e dei grandi maestri, della moderna fotografia a colori, come pure l'inventore del "mosso" quale soluzione visuale per rendere gli stati emotivi. Nel 1953 la rivista "Life" pubblica il suo servizio Magic Images of New York, dedicandogli ventiquattro pagine che affascinano i lettori e il mondo della fotografia: in realtà, per quella serie, Haas aveva utilizzato il colore quasi per disperazione. Giunto nella metropoli americana nel 1951 con un contratto di "Life", provava una profonda frustrazione nell'impossibilità di restituire con il bianco e nero le sensazioni che la città gli ispirava. Ernst Haas, nato a Vienna nel 1921, si iscrive alla facoltà di medicina, ma durante il periodo bellico è costretto ad abbandonare gli studi. Dal 1949 al 1961 è membro dell'agenzia Magnum. Nel 1961 il Museum of Modern Art di New York gli dedica una mostra. Nel 1971 pubblica il libro La creazione, un'interpretazione per immagini della Genesi, che rivela i suoi personali codici di visualizzazione. Muore a New York nel 1986.
a cura di Andrea Plebani
Robert Mapplethorpe
Robert Mapplethorpe nasce nel 1946 a Floral Park, Queens. Della sua infanzia ha detto: "Vengo dalla periferia America. Era un ambiente molto sicuro ed è stato un buon posto per provengano da che era un buon posto per partire." Nel 1963, Mapplethorpe iscrive al Pratt Institute di Brooklyn vicina , dove ha studiato disegno, pittura e scultura. Influenzato da artisti come Joseph Cornell e Marcel Duchamp, ha anche sperimentato con vari materiali in tecnica mista collage, comprese le immagini ritagliate da libri e riviste. Ha acquistato una macchina fotografica Polaroid nel 1970 e iniziò a produrre le sue proprie fotografie ad inserire nel collage, dicendo che si sentiva "che era più onesto." Quello stesso anno lui e Patti Smith, che aveva conosciuto tre anni prima, si trasferì al Chelsea Hotel. Mapplethorpe rapidamente trovato la soddisfazione di scattare fotografie Polaroid nel loro diritto e Polaroids davvero pochi in realtà appaiono nelle sue opere mixed-media. Nel 1973, la Light Gallery di New York City montato la sua prima galleria d'arte personale, "Polaroid". Due anni più tardi ha acquistato una fotocamera di medio formato Hasselblad e hanno iniziato a sparare la sua cerchia di amici e conoscenti di artisti, musicisti, mondani, stelle del cinema pornografico, e membri del S & M underground. Ha anche lavorato su progetti commerciali, la creazione di copertine di album per Patti Smith e la televisione e una serie di ritratti e immagini di partito per Interview Magazine. Negli anni '70, Mapplethorpe è cresciuta sempre più interessati a documentare la New York S & M scena. Le fotografie risultanti sono sconvolgenti per il loro contenuto e notevole per la loro maestria tecnica e formale. Mapplethorpe ha detto ARTnews alla fine del 1988, "non mi piace quella particolare parola 'scioccante'. Sto cercando per l'imprevisto. Sto cercando cose che non ho mai visto prima ... ero in grado di prendere quelle immagini. Ho sentito l'obbligo di fare loro ". Nel frattempo la sua carriera ha continuato a prosperare. Nel 1977, ha partecipato a Documenta 6 a Kassel, Germania Ovest e nel 1978, la Robert Miller Gallery di New York divenne il suo mercante esclusivo. Mapplethorpe ha incontrato Lisa Lyon, campione di bodybuilding delle donne Primo Mondo, nel 1980. Nel corso degli anni successivi hanno collaborato su una serie di ritratti e studi di figura, un film, e il libro, Lady, Lisa Lyon . Nel corso degli anni '80, Mapplethorpe prodotto uno stuolo di immagini che allo stesso tempo sfidare e aderire ai classici canoni estetici: composizioni stilizzate di nudi maschili e femminili, delicate nature morte, fiori e ritratti in studio di artisti e celebrità, solo per citarne alcuni dei suoi generi preferiti. Ha introdotto e perfezionato tecniche e formati diversi, tra cui color 20 "x 24" Polaroid, fotoincisioni, stampe al platino su carta e lino, Cibachrome e stampe a colori dye transfer. Nel 1986, ha progettato scenografie per spettacoli di danza Lucinda Childs ', Ritratti di riflessione , ha creato una serie di fotoincisione per Arthur Rimbaud di Una stagione all'inferno , ed è stato commissionato dal curatore Richard Marshall fare ritratti di artisti di New York per la serie e il libro, 50 artisti di New York . Quello stesso anno, nel 1986, fu diagnosticato l'AIDS. Nonostante la sua malattia, ha accelerato i suoi sforzi creativi, ampliato il campo della sua indagine fotografica, e accettato le commissioni sempre più difficili. Il Whitney Museum of American Art montato la sua prima grande retrospettiva museo americano nel 1988, un anno prima della sua morte nel 1989. suo corpo vasta, provocatoria e potente del lavoro lo ha affermato come uno degli artisti più importanti del XX secolo. Oggi Mapplethorpe è rappresentato da gallerie in Nord e Sud America e in Europa e la sua opera si trovano nelle collezioni dei maggiori musei di tutto il mondo. Al di là del significato storico-artistica e sociale della sua opera, la sua eredità continua a vivere attraverso il lavoro della Robert Mapplethorpe Foundation. Ha creato la Fondazione nel 1988 per promuovere la fotografia, musei di supporto che presentano arte fotografica, e per finanziare la ricerca medica nella lotta contro l'AIDS e infezione da HIV-correlata.
a cura di enzocala
Tina Modotti
TINA MODOTTI (1896-1942) Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice. Apprenderà i primi elementi di fotografia grazie alla frequentazione dello studio fotografico dello zio, Pietro Modotti. Si trasferisce a Los Angeles per raggiungere il padre, emigrante, e lì comincia a lavorare. Sposa il pittore Roubeix. (Robo) Intorno agli anni 20 fa la sua esperienza nel cinema come attrice: ma la natura del cinema è troppo commerciale: E' una donna bellissima e dotata di grande espressività: viene infatti ritratta da molti fotografi, fra cui Edward Weston. Robo muore durante un viaggio in Messico, e Tina lì arrivata per i funerali...rimarrà affascinata da questo paese. Si unisce a Weston e con lui va in Messico: siamo nel 1923, la coppia entra nel pieno del clima post rivoluzionario ed entrano in contatto con i grandi muralisti, fra cui Diego Rivera. E' in questo periodo che Tina, stando a contatto con Weston approfondisce il suo interesse per la fotografia, cui seguirà una prima mostra insieme al compagno. Nel frattempo il loro legame affettivo si deteriora e Tina, che nel frattempo aveva acquistato una camera Graflex, esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato "Manos fuera de Nicaragua" e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern. Tina comincerà a fotografare in maniera diversa, dai fiori, rose calle...sposterà il suo occhio fotografico verso l'indagine sociale: le sue immagini assumono ora una valenza ideologica. Conosce Frida Khalo e si impegna sentimentalmente con Julio Antonio Mella, rivoluzionario cubano, e lei stessa intensifica il suo lavoro fotografico come militante. Nel 1929 Mello viene ucciso dai sicari del dittatore cubano Gerardo Machado.Partecipa alle manifestazioni in ricordo di Mella e, in segno di protesta, rifiuta l'incarico di fotografa ufficiale del Museo nazionale messicano. Si dedica alla militanza e al lavoro fotografico, realizzando un significativo reportage nella regione di Tehuantepec. All'Università Autonoma di Città del Messico il 3 dicembre si inaugura una rassegna delle sue opere, che si trasforma in atto rivoluzionario per il contenuto e la qualità delle fotografie e per l'infuocata presentazione tenuta dal pittore Siqueiros. La rivista Mexican Folkways pubblica il manifesto "Sobre la fotografia" firmato da Tina Modotti. 1930: viene accusata di aver partecipato all'attentato del capo di stato..fu arrestata e espulsa dal Messico. Si imbarca con Vidali..e dopo un lungo giro, giunge a Mosca, dove farà la sua ultima esposizione. Infatti abbandonerà la fotografia, per dedicarsi alla militanza e al soccorso dei militanti politici. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile...e Maria (Tina) con Vidali è a Madrid: lavora negli ospedali, ma fa tanto altro. Ha occasione di conoscere Robert Capa e Gerda Taro, Hemingway, Antonio Machado, Dolores Ibarruri, Rafael Alberti, Malraux, Norman Bethune e tanti altri della Brigate internazionali. Nel 1938 è tra gli organizzatori del Congreso Nacional de la Solidariedad che si tiene a Madrid. Durante la ritirata, con la Spagna nel cuore, aiuta i profughi che si avviano alla frontiera e si trova in pericolo sotto i bombardamenti. Arriva a Parigi con Vidali. Vorrebbe trasferirsi in Italia...ma il permesso le viene negato. Rientrerà in Messico, conducendo un'esistenza difficile. Nella notte del 5 gennaio 1942, dopo una cena con amici in casa dell'architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore, colpita da infarto, dentro un taxi che la sta riportando a casa. Come già era accaduto dopo l'assassinio di Julio Antonio Mella, la stampa reazionaria e scandalistica cerca di trasformare la morte di Tina in un delitto politico e attribuisce responsabilità a Vittorio Vidali. Volevo ricordare la sua amicizia con la grande Frida Khalo e con Diego Rivera. Per chi fosse interessato, c'è un ottimo film “Frida” di Julie Taymor: oltre a essere un grande omaggio alla pittrice, è anche un'ottima ricostruzione di quel periodo. Non avendo più a disposizione i miei libri, la biografia di Tina l'ho estratta dal sito del comitato. Per non dilungarmi...ho saltato molti passaggi della sua vita, ricca e movimentata, cercando di metterne in evidenza i più importanti.
a cura di Norasmind
Steve McCurry
ll fotografo Steve McCurry è noto in tutto il mondo per le sue immagini di alto valore artistico e documentaristico. Gli studi di cinematografia e storia alla Pennsylvania State University gli hanno consentito di sviluppare e perfezionare il talento in entrambi i settori. Conseguita la laurea cum laude nel 1974, inizia a lavorare come fotografo di un quotidiano di King of Prussia, un sobborgo di Philadelphia, sua città natale. Quattro anni dopo decide di lavorare come freelance, parte per l’India e il Nepal, lascia il lavoro al quotidiano e si converte alla fotografia a colori. Il suo obiettivo è realizzare servizi geopolitici per i periodici. Dopo un avvio lento, McCurry arriva in breve tempo alla ribalta internazionale. Nel maggio del 1979 incontra nel Nord-ovest del Pakistan alcuni profughi afghani che lo informano che nel loro paese sta per scoppiare una guerra. Dopo aver trascorso alcune settimane con i ribelli mujaheddin, schivando l’artiglieria dell’esercito di giorno ed evitando le mine durante i trasferimenti notturni attraverso le montagne afghane, McCurry riesce a tornare in Pakistan con tutti i suoi rullini. Quando la sua fotografia dei combattenti mujaheddin che controllano il passaggio dei convogli russi viene pubblicata sul New York Times, McCurry diventa famoso in tutto il mondo. L’intrepido fotografo cui si devono le rare immagini di un conflitto nascente riceve presto altri incarichi dalle principali riviste. Nel 1980 segue la guerra in Afghanistan per Time e viene premiato con la prestigiosa medaglia d’oro Robert Capa per il miglior reportage fotografico realizzato all’estero con straordinario coraggio e spirito d’iniziativa. McCurry inizia quindi a collaborare con National Geographic, che gli garantisce le risorse e il tempo necessari per realizzare servizi approfonditi (l’indice completo degli articoli è nella pagina seguente). L’immagine della piccola profuga afghana dagli occhi verdi pubblicata sulla copertina di National Geographic nel 1985 lo consacra tra i maestri del fotogiornalismo mondiale ed è ancora oggi una delle fotografie più riconoscibili mai scattate. Nello stesso anno, McCurry ottiene numerosi riconoscimenti: tra questi il premio Magazine Photographer of the Year della National Press Photographers Association e quattro premi World Press Photo. Nel corso della sua carriera McCurry si è ispirato al lavoro di altri fotografi documentaristi come André Kertész e Walker Evans, e ha spesso incontrato il maestro Henri Cartier-Bresson, uno dei fondatori dell’Agenzia Magnum, di cui McCurry è membro dal 1986. McCurry vive a New York. Ha documentato i tragici eventi nella città dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center. Era tornato solo il giorno prima dal Tibet, dove si era recato su incarico di National Geographic. Le fotografie di McCurry fanno parte delle collezioni dei principali musei, inclusi l’International Center of Photography di New York; il Tokyo Museum of Modern Art e il Philadelphia Museum of Art, che nel 1997 ha anche organizzato una mostra itinerante delle sue immagini sull’India. Steve McCurry ha pubblicato numerosi libri (dove disponibile indichiamo l’edizione italiana): The Imperial Way (1985); I giorni del monsone (1989); Sanctuary (2002); The Path to Buddha: A Tibetan Pilgrimage (2003); Ritratti (2003); Sud sud-est (2004); Steve McCurry (2005); Looking East (2006); ll cammino di Francesco (2006); In the Shadow of Mountains (2007); L’istante rubato (2009).
a cura di Andrea Plebani
Alexandr Mijáilovich Rodchenko
fu uno dei fondatori del costruttivismo, un movimento culturale nato in Russia nel 1913, che rifiutava il culto dell' “arte per l'arte" a favore dell'arte come pratica diretta verso scopi sociali. Nato a San Pietroburgo il 5 Dicembre del 1891, si trasferì con la famiglia a Kazàn, la capitale del Tatarstan. Studiò nella Scuola di Arte di Kazán, avendo come professori Nikolai Feichin e Georgui Medvédev e nell’ Instituto Stróganov di Mosca.
Dopo la rivoluzione del 1917 Rodtschenko si impegnò, come molti altri artisti dell’avanguardia, per la costruzione di nuove strutture della produzione artistica nella neo-costituita Unione Sovietica. Nel 1920 fu attivo come membro fondatore dell’ Inchuk (Istituto di Cultura Artistica) e sviluppò insieme a Wassily Kandinsky ed altri artisti l’idea di una rete di musei d’arte nell’intero paese. Fu uno degli artisti più versatili della Russia degli anni venti e trenta, esplorando nel suo cammino varie forme artistiche quali la pittura, la scultura, il disegno grafico e la fotografia. Concentratosi, in un primo periodo, sulla grafica dei manifesti, Rodchenko sostituì bruscamente il linguaggio Art Nouveau o futurista diffuso in Europa, con un impianto formale, astratto e geometrico, che trovava nel fotomontaggio il suo linguaggio preferito. I suoi manifesti mescolavano disegni, pittura e fotografie fatte da altri o recuperate da giornali e riviste.Dal 1924 iniziò la sua ricerca fotografica concentrandosi nella ritrattistica di studio attraverso l’uso di camere a banco ottico. Raggiunse, tuttavia, il suo inconfondibile stile quando riuscì a liberarsi dalla schiavitù della fotocamere a lastre pesanti, utilizzando fotocamere leggere e portatili ( tra le sue preferite, la Leica). Redarguito dal regime per il suo stile troppo incline ad uno sperimentalismo di stampo occidentale ed invitato a "rientrare nei ranghi", venne costretto a ritrarre solo eventi di Stato (eventi sportivi, parate e cerimonie) e finì per abbandonare la fotografia intorno al 1940.Per la fotografia Rodchenko è stato un pioniere. Le sue immagini vanno alla ricerca di differenti punti di vista, creando sensazioni nuove, sconcertanti e di forte impatto. Il fotografo russo gioca con le visuali per trarre in inganno lo spettatore. Rodchenko ha liberato la fotografia da molte delle sue convenzioni. Le sue immagini attraverso un punto di vista dall’alto o dal basso deformano la nostra sensazione di oggetto divenendo quasi astratte. Bianchi e neri dai contrasti forti, con un uso sapiente delle luci, raffigurano un amore verso ogni forma di tecnologia (aerei, dirigibili, palloni aerostatici, ma anche ponti, tralicci) e verso quello che il progresso tecnologico rappresenta.
a cura di Andrea Plebani
Helmut Newton
1920 Berlino - vive a Monte Carlo Helmut Newton, oriundo tedesco con passaporto australiano e residente a Monte Carlo nel Principato di Monaco, è senza dubbio un cosmopolita che coltiva con piacere questa immagine. Il fatto che numerose delle sue foto siano realizzate in suite di albergo, fa parte sicuramente di questo atteggiamento. Newton studia con la fotografa berlinese Yva, famosa per le sue fotografie di moda, per i ritratti e i nudi. Dopo l'apprendistato trascorre parecchi anni in Australia e a Singapore e poi vive e lavora a Parigi per 25 anni. Lavora per l'edizione francese, inglese, americana e italiana di «Vogue», ma anche per «Elle», «Marie Claire», «Jardin des Modes», «American Playboy», «Nova» e «Queen». Inoltre realizza regolarmente grandi servizi fotografici per «Stern» e «Life». Oggi sono pochi i fotografi che, come Newton, riescono a polarizzare l'attenzione del mondo dell'arte, diviso fra la cerchia dei fan che ammirano le sue fotografie e gli oppositori accaniti che vogliono squalificarlo, bollandolo come fenomeno di moda o accusandolo di misoginia. In realtà Newton ha creato un nuovo stile della fotografia di moda, di cosmetici e di nudo, che sicuramente ha un successo tanto grande perché rivela una sensibilità profonda per i segni dei tempo. La fusione fra l'autorappresentazione offensiva e la sottomissione volontaria da un lato e la predilezione per donne alte, dall'ossatura sfaccettata, ben autodeterminate, coglie nel vivo il dilemma in cui si dibattono ancora le donne e il movimento femminista: influire sulla società con il proprio ruolo e tuttavia non rinunciare all'identità tradizionale di donna; oppure vivere il difficile e doloroso processo di ricerca di una nuova identità. Le donne mascoline, l'inclinazione all'androgino costituiscono una risposta all'identità non ancora trovata nel nuovo ruolo femminile. Le fotografie di Newton mostrano le sfaccettature più disparate dei tipi di donna che si sono sviluppati in questa situazione. Poiché non lo fa con spirito critico, ma con voluttà, Newton si è attirato le critiche pungenti del movimento femminista.
a cura di Andrea Plebani
Nachtwey James
1948 Syracuse NY e ancora in vita. E’ cresciuto in Massachusetts e si è laureato al Dartmouth College, dove ha studiato Storia dell’Arte e Scienze Politiche (1966-70). La scelta di diventare fotoreporter è stata fortemente influenzata dalle immagini della Guerra in Vietnam e dal Movimento per i Diritti Civili in America. Ha lavorato a bordo delle navi della Marina Mercantile, come apprendista capocronista e camionista, e al contempo studiava fotografia da autodidatta. Nel 1976 ha cominciato a lavorare come fotografo di un giornale nel Nuovo Messico. Nel 1980 si è trasferito a New York per cominciare una carriera come fotografo freelance per un giornale. Il suo primo incarico all'estero fu un servizio sulla lotta civile nell’Irlanda del Nord nel 1981, durante lo sciopero della fame dell’IRA. Da allora Nachtwey si è dedicato esclusivamente alla documentazione di guerre, conflitti e questioni sociali. Il vasto repertorio dei suoi lavori fotografici copre un raggio di quattro continenti. Nachtwey è stato un fotografo di contratto con Time sin dal 1984. Ha lavorato in associazione con la Black Star dal 1980 al 1985 ed è stato membro della Magnum dal 1986 al 2001. E’ socio della Royal Photographic Society e ha ricevuto un Dottorato Honoris Causa in Belle Arti dal Massachusetts College of Arts. Nel settembre 2001 è diventato membro fondatore dell’Agenzia Fotografica VII. La grandezza di James Nachtwey, ciò che lo rende un autore e non un semplice reporter di guerra è che nelle sue fotografie c'è sempre un'attenta composizione. Forse ci si aspetta che un fotografo di fronte ai bambini affamati o ai cadaveri decomposti, diventi incapace di svolgere il suo lavoro, dimentico della sua professionalità, così come chiunque sarebbe incapace di dire qualsiasi parola di fronte a scene del genere. Invece le fotografie di Nachtwey sono sempre chiare e precise testimonianze e l'attenzione alla composizione diventa il mezzo con cui Nachtwey informa, comunica in modo efficace quello che ha visto, con la partecipazione di chi assiste alla sofferenza umana e vuole combatterla.
a cura di Andrea Plebani
Michael Yamashita
Michael Yamashita è nato a San Francisco ed è cresciuto a Montclair, nel New Jersey, nell’area suburbana della metropoli newyorkese. Nel 1971 si è laureato in studi asiatici alla Wesleyan University, nel Connecticut, e subito dopo è partito per l’Asia, dove ha trascorso sette anni. Pur non avendo frequentato alcun corso di fotografia, è riuscito a trasformare l’hobby iniziale in una sfolgorante carriera che combina la passione per l’obiettivo e per i viaggi. Collaboratore fisso di National Geographic dal 1979, Yamashita ha dedicato un’attenzione particolare all’Asia; ma il lavoro lo ha portato in giro per il mondo, dalla Somalia al Sudan, dall’Inghilterra alla Nuova Guinea, dall’Irlanda al New Jersey. Yamashita, che parla perfettamente il giapponese, ha fotografato anche tutto il Giappone, paese d’origine dei suoi genitori. Lo contraddistingue la capacità di seguire con la medesima lucida poesia sia i “percorsi” dell’uomo che i sentieri della natura: ecco dunque i servizi su Marco Polo, sul poeta giapponese Basho, sull’esploratore cinese Zheng He, sul Fiume Mekong e sulla Grande Muraglia. Dal suo servizio sulla flotta di navi lignee più grande del mondo e sull’ammiraglio Zheng He è nato inoltre The Ghost Fleet (La flotta fantasma), un lungometraggio che lo vede in veste di narratore e che è stato premiato come miglior documentario storico al Festival cinematografico internazionale di New York. Yamashita ha cominciato a interessarsi alla fotografia grazie alla sorella, ottima fotografa dilettante. Fra le altre figure che lo hanno ispirato cita Ernst Haas e Henri Cartier-Bresson, e i fotogiornalisti che hanno fatto la storia di National Geographic. Yamashita, che tiene conferenze e seminari in tutto il mondo, ha ottenuto diversi riconoscimenti di associazioni quali la National Press Photographers Association (Pictures of the year), il New York Art Directors Club e la Asian-American Journalists Association. I suoi scatti sono stati in mostra in Asia - a Tokyo, Beijing, Seoul, Hong Kong, Singapore - come a Roma, Francoforte, Los Angeles e Washington. Le sue immagini della zona smilitarizzata fra le due Coree, inoltre, sono state esposte a Perpignan, in Francia, al festival di fotogiornalismo “Visa pour l’Image”. Yamashita ha pubblicato nove libri fotografici, nati nella maggior parte dei casi come articoli per National Geographic: The Great Wall From Beginning to End; New York: Flying High; Zheng He: sulle tracce degli epici viaggi del più grande esploratore cinese (edito in Italia da White Star); Japan: The Soul of a Nation; Marco Polo (edito in Italia da White Star); Mekong: A Journey on the Mother of Waters; In the Japanese Garden; United States Merchant Marine Academy; Lakes Peaks and Prairies: Discovering the United States-Canadian Border. Quando non è in viaggio, Yamashita vive con la famiglia in campagna nel New Jersey, dove presta anche servizio come vigile del fuoco.
a cura di Andrea Plebani
Man Ray
“Uomo raggio”: Man Ray...e la rayografia... Adoro Man Ray................................... Pur essendo un pittore, un fabbricante di oggetti e un autore di film d'avanguardia (Retour à la raison (1923), Anémic cinéma con Marcel Duchamp (1925), Emak-bakia (1926), L'étoile de mer (1928), Le mystères du chateau de dé (1929) precursori del cinema surrealista) è conosciuto soprattutto come fotografo surrealista, avendo realizzato le sue prime fotografie importanti nel 1918. Emmanuel Rudnitzky (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976 Nel 1897 la famiglia si trasferisce a Brooklin, dove compie i suoi studi indirizzandosi al design industriale. Fra il 1910 ed il 1915, una serie di frequentazioni illuminanti, imprimeranno nell’esistenza di Emmanuel Radnitsky, allora poco più che ventenne illustratore, quei cambiamenti di prospettiva che gli faranno scegliere una nuova identità anagrafica ed artistica. I suoi studi presso il circolo artistico anarchico Francisco Ferrer, le conversazioni con Alfred Stieglitz alla Galleria 291, dove il giovane si recava ad ammirare i collage di Picasso o gli acquerelli di Cézanne, l’incontro con Marcel Duchamp, soprattutto, fanno sì che la sua ricerca (sino allora influenzata dal Cubismo) converga sulla luce, elemento primario della visione. E' nel 1915 che comincia a fotografare, insoddisfatto di come i fotografi professionisti riprendono le sue opere. Man Ray diventò fotografo per necessità, dopo la sua prima personale di dipinti (Novembre 1915), si trovò a dover affrontare il problema di come procurarsi le fotografie delle proprie opere necessarie per la stampa, per i collezionisti e per i galleristi. Difficoltà finanziarie oltre al fastidio di dover trasportare i dipinti da Ridgefield a New York, si aggiunsero alla sua insoddisfazione nei confronti del lavoro dei fotografi professionali, inducendolo ad assumersi personalmente il compito. Fu perciò la pura necessità a metterlo sulla via che gli avrebbe dischiuso in seguito tante possibilità e prospettive. Dal fotografare proprie opere al tentativo di cimentarsi nel ritratto fotografico il passo era breve. E ben presto si dedicherà ad altri soggetti. Nel 1921, durante la quindicesima mostra annuale di fotografia, vince un premio per un ritratto di Berenice Abbott, allora scultrice e in seguito fotografa e sua assistente per tre anni. Il sodalizio con Marcel Duchamp è ormai consolidato e Man Ray lo raggiunge finalmente a Parigi dove incontra i dadaisti e fa la conoscenza con Jean Cocteau, Erik Satie e Kiki de Montparnasse. Sono anni ricchi di attività artistiche: pubblicazione di libri, partecipazione a mostre personali e collettive la realizzazione di rayografie, immagini di nudo e immagini di moda. La Royografia, le solarizzazioni, il sovrasviluppo, i forti ingrandimenti sono alcuni fra i contributi più noti di Man Ray a un'attività professionale che, fra le sue mani divenne un'arte. Rayografie: Chiamate ora comunemente “fotogrammi”, sono immagini nate in camera oscura senza l’ausilio di una macchina fotografica, grazie al processo chimico che la luce innesca sui materiali fotosensibili: il risultato è quello di un negativo degli oggetti opachi o traslucidi che sono stati appoggiati sula carta. Man Ray ne rivendica la paternità di “scoperta casuale”, ma la stessa tecnica è impiegata in quegli anni da Laszló Moholy-Nagy che, membro della Bauhaus, indaga le implicazioni gestaltiche di tali figurazioni. Bauhaus e Dada, del resto, partono da un’uguale idea di “universalità” dell’arte, alla quale possono concorrere le tecniche più disparate, arrivando tuttavia ad opposte istanze: di ricostruzione della società attraverso l’arte (dopo la prima guerra mondiale), l’una; l’altro di decostruzione d’ogni regola e convenzione borghese. Così le Rayografie, su questo sfondo culturale, acquistano un valore destabilizzante per le attese mimetiche ed iconiche, rispetto ad una tecnica ritenuta garanzia massima di realismo, e pongono le premesse ad un discorso critico sul linguaggio fotografico. L’invasione nazista del 1940 costringe Man Ray a lasciare la capitale francese alla volta di New York per stabilirsi successivamente a Hollywood, dove incontra Juliet Browner, sua futura moglie, e dove rimarrà per 11 anni prima di ritornare a Parigi, dove morirà nel 1976
a cura di Norasmind
Sebastiao Salgado
Sebastiao nasce nel 1944 ad Aimores in Brasile, dopo una laurea in economia e una missione in Africa che segnera' il suo destino, decide di diventare fotografo.
Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da un altro sulla condizione degli immigrati in Europa. Grandi agenzie come Sygma, Gamma e Magnum si avvalsero dei suoi servizi, ma nel '94 fondo' con sua moglie la Amazonas Images.
Nel 1974 documenta la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico.
Salgado si occupa soprattutto di reportage sociali dedicandovi mesi e in alcuni casi anni di lavoro come nel caso del suo lavoro in America Latina che ha dato vita al libro Other Americas.
Realizza inoltre un progetto sul lavoro nei settori di base della produzione intitolato La mano dell’uomo, uscito nel 1993, e tradotto in sette lingue al quale seguì una mostra presentata finora in oltre sessanta musei.
Le sue opere parlano di tematiche scottanti, come i diritti dei lavoratori, la povertà e gli effetti dell’economia nei Paesi in via di sviluppo, Salgado ha fama di fotografo "umanista", in una sorta di neorealismo globalizzato, in cui il suo talento tecnico e creativo e' al servizio di profughi, perseguitati, emarginati, poveri, lavoratori sfruttati e alla condizione umana dei deboli in generale.
Una delle sue raccolte è ambientata nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, e documenta l’abuso dei diritti umani. Migliaia di persone vengono ritratte mentre si arrampicano fuori da un’enorme cava su primitive scale a pioli, cariche di sacchi di fango.
Salgado scatta usando una pellicola in bianco e nero e una fotocamera Leica da 35 mm strumenti, sceglie le macchine, in base alla qualità delle lenti ed è particolarmente attento alla resa dei toni della stampa finale e applica uno sbiancante con un pennello per ridurre le ombre troppo intense.
a cura di Andrea Plebani
Dennis Stock
Dennis Stock..(fra i miei preferiti): 1928-2010
Ha eccellentemente rappresentato l'anima americana non solo attraverso i ritratti delle star di Hollywood, ma anche con le sue riprese dei musicisti jazz.
Il suo consiglio: “Vuoi fare immagini migliori? Esci, parti muoviti e vedrai che le immagini arriveranno.”
Figlio di emigranti, padre svizzero e madre inglese. Orfano di padre dall’età di 16 anni, in Marina all’età di 17, alla fine della guerra decide di diventare fotografo frequentando l’austera scuola di Berenice Abbott.
I primi contatti con fotografi quali Eugene Smith e Gjon Mili, per il quale collabora come assistente, lo portano a formarsi fotograficamente, fino ad essere consacrato, prima dalla rivista “Life” , per un servizio sugli emigranti e successivamente dalla chiamata a far parte dell’agenzia fotografica Magnum, “Fotografo” a tutti gli effetti.
Per Magnum, va a Hollywood per riprendere set e attori. Entrò presentato da Robert Capa.
Dennis non si fermava mai all’immagine più ovvia. Cercava di grattar via la patina glamour del personaggio per coglierne aspetti più intimi..E' in questo periodo che diviene amico di James Dean...e gli scatti di Dennis sono memorabili.
Ho varie stampe di Dennis Stock fra le quali ve ne è una che non sono riuscita a reperire sul web...Mi sarebbe piaciuta mostrarla.
Nel 2006 in Friuli si inaugura una mostra: “America vs America: la generazione hippie tra disincanto e utopia” di Dennis Stock (Associazione “Vicino lontano”)
“A vedertelo davanti, ti sembra un tranquillo “vecchietto” che si trova in quella libreria forse per comprare dei libri di favole, per i nipotini. La barba e i capelli brizzolati, gli occhiali bifocale, una camicia gialla ocra portata fuori dai pantaloni color verde oliva, ti danno esattamente l’idea del pacifico pensionato.
Ed invece, mi trovo di fronte ad una delle leggende della fotografia internazionale post-bellica e contemporanea, ovvero mi trovo davanti a Dennis Stock.”....
Sogna come se dovessi vivere per sempre, vivi come se dovessi morire oggi”. Diversamente da James Dean, Dennis Stock ha avuto una vita lunga con figli e nipoti. Ma ha saputo sognare.
a cura di Norasmind
Tiziano Terzani
Ho pensato di parlare di Tiziano Terzani, uno dei miei “eroi” di sempre .. tutti lo conoscerete senz’altro, è stato giornalista e inviato. Non tutti saprete però che Tiziano era anche un fotografo, qui non voglio scrivere la Sua biografia, sarebbe troppo complesso, le cose da dire sul suo conto sono troppe, mi limiterò a riportare alcune frasi estrapolate dai suoi innumerevoli libri, frasi che parlano del suo rapporto con la fotografia, nella speranza di far nascere in Voi la curiosità per questo personaggio incredibile. Tiziano Terzani nasce il 14 settembre a Firenze, patria come sapete anche del grande fotografo MacLeod, Tiziano diceva di essere diventato fotografo per necessità, una sua famosa frase cita: ” l’immagine è un’esigenza là dove le parole da sole non bastano” era diventato fotografo (a suo dire) anche un po’ per invidia, Famosa questa sua frase: «L’invidia per i fotografi m’era cominciata in Vietnam quando si tornava dal fronte e quelli, avendo già fatto il loro lavoro, andavano dritti al bar, mentre a me toccava ancora mettermi con angoscia davanti al foglio bianco, allora infilato in una Olivetti Lettera 22, a cercare di descrivere con mille parole il bombardamento, la battaglia o il massacro del giorno che loro – i fotografi bravi almeno – avevano già raccontato in una sola immagine. Quella di cogliere il nocciolo di una storia con un clic è un’arte che mi ha sempre attirato. Per questo forse, da allora, sono sempre andato in giro con una vecchia Leica al collo quasi a rassicurarmi che, se mi fossero mancate le parole, una traccia di ricordo mi sarebbe rimasta nella pellicola». questa sua frase invece, ci fa capire la sua idea di fotografia: «Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e i filtri giusti. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea. Bisogna capire cosa c’è dietro i fatti per poterli rappresentare. La fotografia – clic! – quella la sanno fare tutti». Terzani ha vissuto e viaggiato in Vietnam, in Cina, nelle Filippine, in Giappone in India, viveva in quell’Oriente in cui aveva voglia di immergersi spiritualmente, viaggiava con un piccolo taccuino per gli appunti in una tasca e una macchina fotografica al collo per completare i suoi reportage .. il suo sguardo e il suo punto di vista sul suo mondo. soprattutto sull’Asia, che ci ha fatto conoscere in decenni di giornalismo e di fotografia. Un’altra sua frase cita “Ci andai anzitutto perché era lontana, perché mi dava l’impressione di una terra in cui c’era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca dell’altro, di tutto quello che non conoscevo, all’inseguimento di idee, di uomini, di storie di cui avevo letto”. Era questa la sua natura e il suo spirito profondo, un tutt’uno tra stile e filosofia di vita: “Io sono qui alla ricerca di una cultura che sia in grado di resistere alla modernità di tipo occidentale. Sono curioso di vedere come funziona un mondo non ancora retto esclusivamente dai criteri dell’economia. Questo è il mio interesse al momento”. Testo: mio e frasi scopiazzate dai libri di Terzani
a cura di Genesio1974
Edward Weston
Edward Weston (Highland Park, Illinois, 24 marzo 1886 – Wildcat Hill, California, 1º gennaio 1958) “Weston sosteneva che compito del fotografo non fosse solamente “imparare a maneggiare l'apparecchio o a sviluppare o a stampare”, ma “imparare a vedere fotograficamente, addestrarsi a guardare il soggetto, tenendo conto delle possibilità della sua attrezzatura e dei relativi procedimenti tecnici, in modo da poter istantaneamente tradurre gli elementi ed i valori della scena, nell'immagine che si propone di realizzare”. Praticamente i fotografi secondo Weston dovevano possedere la capacità di pre-visualizzare (visualizzare prima) la fotografia dentro se stessi, e poi scattarla.” Ben presto diventò uno dei maggiori fotografi statunitensi. Nel 1906 si sposa e apre un suo studio fotografico. Viene spesso premiato. Dal 1915 cominciò una ricerca fotografica su effetti luministici e angolazioni, per poi in seguito apprezzare il cubismo nella pittura e il modernismo nella fotografia. Sino al 1934, Weston annoterà tutto su un suo diario personale che poi ha permesso di capire la genesi di molte delle sue fotografie. Dopo il 1923, forse perchè a contatto con Tina Modotti e il Rinascimento Messicano, abbandona lo sfocato artistico: conosce anche Diego Rivera e la nuova arte messicana. Molte foto infatti saranno a questa arte ispirate. Ed è in questo periodo che ritrae anche Tina Modotti, compagna e modella. (Tina Modotti imparerà molto da lui). Nel 1932 sarà con Ansel Adams fra i fondatori del gruppo f/64.. chiamato così perché in genere usavano l'apertura minima di diaframma degli obiettivi che impiegavano per ottenere la massima profondità di campo. Questa cerchia di fotografi avviò un’estetica che si basava sulla perfezione tecnica e stilistica: qualunque foto non perfettamente a fuoco, o perfettamente stampata, o montata su cartoncino bianco era “impura”. Si trattava di una reazione violenta allo stile sdolcinato e sentimentale che in quegli anni dominava nella fotografia pittorialista. Nel 1937 ottiene il premio Guggenheim Fellowship. Si ammalò di parkinson e scattò la sua ultima fotografia nel 1948. Come sosteneva Ansel Adams: “Weston è uno dei pochi artisti creativi del nostro tempo. I suoi lavori illuminano il viaggio spirituale dell’uomo verso la perfezione”. Fonti: Arcadja Fotoartearchitettura Liquida angelo zzaven
[immagini]
a cura di Norasmind